Sono andato a letto presto” non è certamente il primo disco nato durante la pandemia. Centinaia di musicisti e musicanti hanno approfittato della clausura forzata per scrivere canzoni. Ma è forse il primo nato in una casa piena di persone che andavano e venivano, al punto da “entrare” in più di qualche canzone con voci, rumori e telefoni che suonano…
Un problema? Anche uno stimolo, dice l’autore. Insomma, “Sono andato a letto presto” di Matteo Rinaldi non è stato certamente registrato ad Abbey Road. Ma come molte cose fatte in casa – “homegrown” per dirla in stile yankee – ha le sue qualità. Non solo il suono un po’ sporco, e quindi unico, che rimbalza sui muri non insonorizzati di una stanza di vita vissuta. Metteteci anche il sound, per nulla professionale ma nemmeno scadente, giacché oggi la tecnologia ti permette di raggiungere qualità impensabili anche con schede audio, microfoni e strumenti dal costo molto basso. In fondo, alla musica basta una chitarra, una voce e qualche buona idea per darci la possibilità di ascoltare qualcosa che prima non c’era.
“Matteo Rinaldi, cosa c’è in questa raccolta dal titolo che cita una celebre battuta di De Niro in “C’era una volta in America”?
La storia di un post adolescente di 55 anni che prende in mano la chitarra e si rimette a scrivere canzoni dopo trent’anni da (attento) ascoltatore. Uno che dovrebbe pensare alla pensione ma che pensa invece alla passione. E scusate il gioco di parole.
I giochi con le parole, i testi insomma, sono la caratteristica che ha colpito di più i primi ascoltatori. Belle storie, dicono.
Sono le mille storie di chi, nella vita, è andato a letto troppo presto. Di chi non è riuscito a farsi capire come avrebbe voluto. Di chi ha cercato senza trovare. Ma che, per fortuna, ha imparato anche a riderci sopra. E soprattutto a non smettere di provare.
Il lato A del (virtual) disco è quasi tutto acustico. Poi si alzano toni, volumi, ardori e rumori…
Crosby, Stills, Nash & Young facevano così, negli anni sessanta: nel lato A voci e chitarre, nel lato B via al casino. Anche Beck – che amo – ha pubblicato Morning Phase, uno stupendo disco acustico pochi anni fa, e subito dopo Hyperspace, elettronico e iper effettato. Cambia totalmente le carte in tavola ma resta ugualmente magnifico. La musica non ha regole, tempi, logiche. Chi dice “questa cosa è fuori tempo o fuori moda” ha solo il desiderio di mettere ordine nel mondo. Ma il mondo non ha ordine e la musica meno ancora.
Dacci una ragione per ascoltare i tuoi pezzi.
Non c’è niente che sia scritto e suonato alla leggera. Non c’è una parola o una rima messa a caso. Certo, se trovi ascoltabili le schifezze di Amici e X Factor lascia perdere. Se invece vuoi ascoltare qualcosa che non segue necessariamente l’andazzo generale, qualcosa che parla realmente anche di te – perché sono sicuro che parla anche di te – metti le cuffie e fai partire. Ehi, patti chiari: a me servono cinque ascolti per apprezzare un brano. Le cose che più amo, al primo ascolto mi hanno fatto sempre schifo. Credo valga la stessa regola per le mie canzoni. Pazienza e predisposizione.
Adesso una per non ascoltarne nemmeno uno.
Difetto in semplicità. “Sul posto”, il secondo pezzo del lato B, racconta una storia che è una parodia del linguaggio dei cronisti di nera. Ma, nello stesso tempo, anche di un celebre pezzo dei Radiohead. E pure di un vecchio hit dei Clash. E infine del mio complicato rapporto con la legge e l’autorità. Se cercate “easy listening”, sparite immediatamente. Qui ho compresso mezzo secolo di ascolti, passioni e orrori. Ci vogliono orecchie sensibili ma soprattutto stomaci allenati.
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